Il termine giapponese Hikikomori letteralmente significa mettersi da parte e fa riferimento al ritiro sociale che molti giovani (e non solo) decidono di compiere per lunghi periodi, che possono durare mesi o persino anni.
Nato, come è intuibile, in Giappone, questo fenomeno sta prendendo sempre più piede in tutto il mondo, e l’Italia non fa eccezione.
Non esistono ancora dati quantitativi a livello delle singole regioni italiane ma l’Agenzia Umbria Ricerche (AUR) ha portato avanti una ricerca di tipo qualitativo sul territorio umbro tramite dei focus groups.
Ecco quindi che “I giovani in numeri” oggi parlerà del fenomeno Hikikomori utilizzando direttamente le testimonianze dei genitori e dei ragazzi della Regione Umbria che hanno preso parte a questo studio.
Prima di tutto però qualche numero può aiutarci a dare un quadro generale sul fenomeno.
Grazie all’indagine dell’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-Ifc) – la prima in Italia – si è potuto stimare che gli adolescenti italiani (15-19 anni) ad identificarsi come ritirati sociali sono quasi 55mila.
La fascia di età più a rischio risulta essere quella tra i 15 e i 17 anni, con cause che spesso hanno origine già negli anni della scuola media. Nel complesso, dalla ricerca – basata su un campione di oltre 12mila studenti – è emerso che l’8,2% degli intervistati non è uscito per un periodo da 1 a 6 mesi, con molti casi che hanno addirittura superato i 6 mesi di chiusura.
Alla luce dei dati del Cnr-Ifc, gli Hikikomori rappresenterebbero circa l’1,7% (44mila) degli studenti italiani, mentre ad essere a grave rischio di diventarlo sono più di 67mila giovani, ovvero il 2,6% del totale.
Tuttavia ad essere interessanti sono soprattutto le cause di questo disagio. Come per molti altri disturbi, le ragioni che possono spingere a questo isolamento sono diverse.
Ciò che emerge dalla ricerca di AUR è che le aspettative sociali giocano un ruolo centrale nella scelta di ritiro di molti giovani. E questo non riguarda solo le famiglie, ma l’intera società.
“Lei si doveva fermare. Mia figlia era un’eccellenza a scuola. Non reggeva il peso sociale di questo, l’aspettativa”, dice una madre di una ragazza hikikomori durante un focus group.
E qui, un altro elemento chiave: il bisogno di isolamento.
In una società in cui la parola d’ordine è “produttività”, fermarsi è visto come qualcosa di sbagliato. Eppure negli anni sembra essere diventato necessario per sempre più giovani. A quest’età trovare la propria identità è tutt’altro che facile, e prendersi del tempo per capire quale strada intraprendere può rappresentare un vero e proprio momento di svolta nella vita di un ragazzo.
In ogni caso, non sentirsi in linea con le aspettative sociali spesso provoca sentimenti di impotenza, fallimento, ansia. E, soprattutto, può portare ad un rifiuto nei confronti delle fonti di tali aspettative, ovvero i genitori, gli insegnanti e, il più delle volte, i propri coetanei.
Infatti, il senso di colpa e il giudizio della comunità si amplificano nel confronto con questi ultimi – la cosiddetta peer pressure – e questo può arrecare un ulteriore senso di frustrazione e autosvalutazione.
Un ultimo elemento decisivo è il ruolo della famiglia.
Secondo quanto stabilito dalla ricerca di AUR, in contesti familiari disfunzionali, caratterizzati da una mancanza di comunicazione, “un ipercontrollo/assenteismo e un sistema di aspettative eccessivo, possono portare a delle carenze dal punto di vista identitario, sociale e nella strutturazione di capacità emotive che permettono al ragazzo di rispondere in modo adattivo a determinati eventi/stimoli stressanti”.
È per questo che il recupero del benessere dei ragazzi hikikomori parte proprio dai genitori.
L’inserimento dell’intero nucleo familiare all’interno della comunità rappresenta un utile strumento soprattutto per quei genitori che hanno difficoltà a comprendere i propri figli, e che così possono trovare risposte nell’aiuto di un esperto o nel dialogo con altre famiglie. Fortunatamente, secondo lo studio di AUR, sul territorio umbro non mancano esempi di buone pratiche in questo senso, grazie al lavoro di rete svolto dagli uffici di cittadinanza, i quali cercano appunto di mettere in contatto famiglie, territorio e servizi.
Sulla base delle problematiche emerse dai focus groups, il report di AUR ha individuato alcune possibili aree di intervento.
Una prima questione riguarda l’ignoranza diffusa sul fenomeno: innanzitutto, cosa porta i giovani a fare una scelta di questo tipo?
A tale proposito, promuovere la ricerca futura (sia qualitativa che quantitativa) sul tema e avviare una campagna di sensibilizzazione nelle scuole e nelle istituzioni possono dimostrarsi ottimi strumenti di informazione.
In secondo luogo, è emersa, quantomeno sul territorio perugino, una notevole carenza di posti e di personale formato nel supporto dei giovani hikikomori e delle loro famiglie.
Per questo, oltre alla necessità di una formazione continua per i professionisti, c’è bisogno di implementare le buone pratiche presenti sul territorio, come i gruppi d’ascolto di Hikikomori Italia, il gruppo Facebook HikiTo e il progetto di “home visiting” avviato dall’USL Umbria 1.
Un terzo problema riguarda le difficoltà che molti giovani riscontrano nella ricerca della propria identità. Per questo, la ricerca di AUR propone di sviluppare progetti che permettano ai ragazzi di ascoltare ed esprimere se stessi. In tal senso, due iniziative interessanti sono i percorsi di orientamento basati sui talenti e sulle competenze emotive e relazionali e i laboratori espressivi e artistici nelle istituzioni culturali del territorio.
Infine, un aspetto cruciale è rappresentato dal dialogo all’interno delle famiglie.
In questo senso, tramite il lavoro di rete tra professionisti e comunità è possibile sostenere le famiglie nella creazione di competenze comunicative intergenerazionali che consentano una comunicazione efficace tra genitori e figli.
Inoltre, lo sviluppo di un programma di educazione al digitale è funzionale non solo per i giovani – in quanto consente di prevenire problemi di dipendenza dalla tecnologia – ma anche se indirizzato ai genitori. Infatti, la mediazione tecnologica si è rivelata una delle modalità più efficaci per stabilire un contatto con i ragazzi hikikomori.
Nel complesso, il fenomeno hikikomori non è semplicemente uno “stare da soli”. Riprendendo le parole dello studio di AUR, esso è piuttosto “un “grido di malessere”, comunicato in un linguaggio non verbale: il linguaggio dell’assenza, del silenzio, del vuoto generativo.”
Ma, come spiega la madre di una ragazza hikikomori durante un focus group, questo “buio” può anche rappresentare il passo indietro che consente di prendere la rincorsa:
“Per mia figlia i ritiri sono stati ‘momenti necessari’. Un bisogno di reset. Non trovava altra comunicazione per lamentare qualcosa che non andava bene. Il buio, il silenzio, la solitudine: sono serviti.”